Ci piacerebbe che una volta o l’altra, durante uno dei tanti
lavori di ristrutturazione nel centro storico alto, si scoprissero
cinque lettere tracciare con vernice rossa su un vecchio intonaco di
età romana. Di una simile scritta troviamo notizia nel De
oratore (lib. 2) di Cicerone:
“
I tipi di facezie sono due, uno basato sulle azioni, l’altro sulle
parole …Pare che Memmio, durante il litigio per un’amichetta,
prese a morsi il braccio di Largio che era con lui a Terracina… Il
giorno dopo, su tutti i muri della città comparve una scritta
formata da tre elle: L L L e
da due emme: M M. Quando tu, o Crasso, ti
sei messo a chiedere che roba era quella, un vecchiotto del posto ti
rispose. Lacera
il Lacerto di Largio
il Mordace Memmio”.
L
L L
M
M
Nel caso trovassimo la scritta avremmo la
spiegazione autorevole di un episodio di storia minima locale.
Più spesso accade invece il contrario:
scopriamo antiche tracce di vita quotidiana, segni di episodi mai
raccontati o che si sono fermati sulla soglia della Storia perché
si è perso il significato degli avvenimenti o perché essi non
furono giudicati degni nemmeno di cronaca.
E tuttavia può succedere che l’eco della
“Grande Storia” arrivi comunque, magari deformata dalla
reintepretazione popolare, anche nelle città di provincia come
Terracina.
Questo è quanto è accaduto nel caso del
fortunato ritrovamento della serie di graffiti di Piazza del
Municipio a Terracina. Graffiti segnalati da Clemens Krause nel 1976
e studiati da Heikki Solin. L’intonaco interessato è sito nella
parte esterna al corridoio orientale di ingresso al teatro romano
posto sul lato nord dell’attuale Piazza del Municipio. (F.1)
La parete rivolta ad est, esterna al
corridoio di accesso al teatro, conserva gran parte dell’intonaco
originario romano ora protetto da lastre di plexiglas. (F.2)
L’adito forse costituiva un angiporto
frequentato occasionalmente per esigenze fisiologiche dagli
spettatori del teatro e forse, proprio per ragioni igieniche,
interrato “ab antiquo” contribuendo
così alla conservazione dell’intonaco e di quanto vi era sopra
graffito.
Fiore geometrico. La figura più
leggibile è costituita da un fiore geometrico esapetalo, inscritto
in un cerchio dal diametro di 18 cm. e mezzo. Per la composizione
sono stati utilizzati due chiodi ed un pezzo di spago in
sostituzione del compasso. (F.3)
Altri graffiti più evanescenti o
approssimativi rappresentano: una figura maschile in corsa, La prua
di una nave (?), l’immagine di un gladiatore (reziario?), una
epigrafe dal doppio cognome (Cominius Chilo), una testina
maschile rappresentata frontalmente (F.4),
oltre ai due graffiti più interessanti
costituiti dall’esametro di Clodio Pulcro e dalla caricatura di
Giulio Cesare.
L’esametro (e mezzo) di Clodio
Pulcro.
Le lettere graffite occupano uno spazio di cm. 23,3 x 2,5 e sono
disposte su un rigo e mezzo.
La trascrizione è la seguente:
PVBLI PROGENIES APPI COGNOMINE PVLCRI
OCCVBVIT LETVM
E si può tradurre, un po’ liberamente così:
O Publio, discendente di Appio, soprannominato il Bello,
se ne andò all’inferno.
Si tratta di Publio Clodio Pulcro,
discendente di Appio Claudio Cieco, Tribuno della Plebe.
“Pulcher fu
assassinato all’inizio del 52 (a. C) dalla banda di Milos vicino a
Bovillae; alle sue esequie andava in fiamme la Curia del Foro, la
sua morte causava grande emozione ed ancora più tardi i suoi
discepoli causavano grandi disordini a Roma. Così la sua morte
otteneva celebrità ovunque, e non è difficile vedere un’eco di
questo evento sul muro di Terracina. (H. Solin)
Innegabile è l’intento di voler schernire
il personaggio populista da parte dell’anonimo versificatore che
doveva appartenere o essere un cliente del partito aristocratico in
una città di provincia sillana da vecchia data.
Le caricature. Il gusto realistico della ritrattistica romana non rifuggiva,
talvolta, dallo scivolare nel caricaturale, Tanto più che la tecnica
popolare del graffito sembra prestarsi particolarmente allo scopo,
come dimostrano esempi analoghi noti altrove: nell’ordine, il
primo rappresenta Rufus e si trova nella Villa dei Misteri a Pompei,
il secondo ritrae Nerone, il terzo un personaggio cinto d’alloro,
forse lo stesso Tiberio. Le ultime due si trovano nella domus di
Tiberio a Roma. (F. 5, 6, 7)
La caricatura di Giulio Cesare a
Terracina. L’immagine graffita è molto piccola (cm. 4 x 2,5
senza le iscrizioni sopra e sottostante). Che di caricatura si
tratti pare molto probabile. “Non escludo che la figura sia da
spiegare con le stesse deduzioni relative all’iscrizione di
Clodius, riferendola cioè agli avversari di Cesare “ (H. Solin). In
questo caso il sarcasmo dell’esametro di Clodio Pulcro farebbe il
paio con questa immagine e proverrebbe dallo stesso ambiente
politico antipopolare di Terracina. Ancora più beffarda è l’interpretazione
di chi vede il capo di Cesare cinto d’alloro (le malelingue
attribuivano al dittatore il vezzo di cingere la corona d’alloro
nel tentativo di occultare la sua calvizie). Se è vera questa
interpretazione il graffito deve datarsi per lo meno al 50 a. C.
data, comunque, non molto distante dalla morte di Clodio.
La doppia iscrizione, sopra e sottostante il
profilo, nel tentativo di
spacciare il bilinguismo greco-latino dell’autore ne rivela i
limiti allorché riportando in greco il nome CAESAR trascrive CAICAP
invece di KAICAP. A riprova dell’estrazione plebea del
caricaturista. (F. 8)
Tabule
lusorie. Di origine
altrettanto plebea sono le “tabule lusorie”
e le tracce antiche e moderne lasciate dai bambini che hanno
usato gli spazi aperti come campi da giuoco. Testimonianza ne sono
quelle pietre che recano inciso lo schema del gioco che consiste nel
piazzare tre pedine di fila agli incroci dei tre quadrati
concentrici e che oggi chiamiamo “Filetto”. A
Terracina ne conosciamo almeno tre riutilizzate nele costruzioni
medioevali: nell’area di “Santangeletto”, a Piazza
Cancelli e quella della foto che si trova dirimpetto alla porta
della chiesa di San Giovanni. (F.
9)
Segni
per appuntire le trottole.
Su alcune colonne del pronao della cattedrale ci sono vistosi solchi
verticali lasciati dal sadico giuoco che consisteva nello spaccare
la trottola dell’avversario, “spacca-pìccher”
. Perché il giuoco
riuscisse la trottola doveva essere pesante e la punta di ferro
appuntita. Quei solchi sono le tracce dell’arrotatura. (F.
10)
Sebbene
il giuoco fosse tramandato di generazione in generazione, non appena
adulti lo si snobbava tanto che per indicare un perdigiorno si
diceva: “ Che mestier fa?… Fa i pizz a i pìccher!”.
Buche
e cataletti per la biglie. La
vasta pavimentazione dell’antico foro fu luogo privilegiato per i
giuochi di frotte di ragazzi d’altri tempi. La cavallina o
nascondino non lasciano segni; castello, mondo, cerchi per la base
della lippa, tracciati con gesso o carbone hanno avuto vita breve,
ma le buche per il giuoco delle biglie, frutto di pazienti lavori di
perforazione, sono rimasti sulle lastre di pietra del pavimento
bimillenario a testimoniare interminabili penitenze dello sfortunato
giocatore perdente che doveva “abbozzà la marosca”. (F. 11)
Denti
da latte e topolini distratti. Da
bambini, quando i denti da latte cominciavano a tentennare, i
genitori raccomandavano di nasconderli nel buchetto di una parete.
Lì sarebbe passato un topolino e ci avrebbe lasciato una moneta.
Chissà da quanto tempo si racconta la storiella, ma una cosa è
certa: i dentini spesso ci cadevano mentre giocavamo “a lotta”
fuori casa. Chissà quanti denti da latte si persero sotto il
colonnato della Cattedrale, io stesso ne ho trovato più di uno
inserito tra i conci di Palazzo Venditti, in attesa di un topolino
che non è mai passato. (F.
12)
Il
putto vendemmiante. Tutta
la zona di Sezze, Terracina e Fondi fu terra di produzione vinicola.
Ne troviamo una prova in questo mosaico tornato casualmente alla
luce nel 1980 in Via Santi Quattro. Esso fa parte di un vasto
complesso musivo ora esposto nelle gallerie sottostanti la
Cattedrale. Fu pavimento
al peristilio di una ricca domus del II secolo d. C. Il proprietario, un commerciante, o forse produttore di uva numisiana
(aptissima dolis, come la definisce Plinio), volle
lasciarci una nobile testimonianza della sua maggior fonte di
ricchezza. (F. 13)
I mosaici policromi- Allo stesso
complesso di pavimenti musivi appartengono anche tre emblemata dagli
splendidi colori che rappresentano rispettivamente : un frutto di
cedro (i Romani non conoscevano ancora i limoni) e due pesci di cui
uno viene rappresentato nella foto. Allusione quest'ultima,
riferita ad un'altra tradizionale fonte di ricchezza di Terracina:
la pesca. (F.14)
Gli scavi di Via Greggi- Sembra che
dovunque si scavi nel Centro Storico Alto ci si debba imbattere in
strutture di case, cisterne e cunicoli di epoca antica. ‘E stato
anche il caso di Via Greggi, dove, mentre si procedeva alla
sistemazione della rete fognante, sono venuti alla luce ambienti di
epoca romana, con tracce di intonaci dipinti e lembi di mosaico
ancora allo studio. (F. 15)
I mosaici de “I Trioni”. Anche
quando un privato cerca di ristrutturare un locale nel Centro
Storico per destinarlo ad una nuova attività, non appena solleva un
fatiscente pavimento, può capitare che si imbatta in preziosi
frammenti musivi (F. 16). Questo è accaduto all’interno
del ristorante I Trioni (in prossimità dei Torrioni di Porta
Maggio). Sempre nello stesso sito è stata anche rinvenuta una
cisterna romana, recuperata e resa accessibile alle visite. Sono
anche queste tracce di vita agiata o di empirica quotidianità.
Cisterne antiche e falli apotropaici. I
Terracinesi del medioevo riutilizzarono spazi antichi, spesso
ignorando o misconoscendo quello che c’era sotto i loro piedi.
Nei locali ora riattati a spazi espositivi in
Via San Giovanni n.6 sono state rinvenute e svuotate due cisterne
romane.
Nei locali di Corso A. Garibaldi, ora pub St. Patrick, è venuta alla luce un’altra cisterna antica ora
adattata a fornita enoteca. (F.17)
Altre cisterne e sostruzioni sono diventate
cantine e depositi e talvolta vi si rinvengono simboli apotropaici
come questo, destinato a tener lontano il malocchio. (F. 18)
Cisterna medioevale sotto il Palazzo Vescovile. Una delle cisterne più singolari,
probabilmente di epoca medioevale (nota a pochissime persone). Essa
si trova nell’area sottostante l’Episcopio. Da essa veniva
attinta acqua ancora nel 1791. Una pianta dell’epoca indica due
locali con il n. 4 e 5 (rilevati in colore azzurro nella figura) la
cui leggenda recita:
4) Stanza a Solaro, con cisterna,
affittata per comodo dell’Acqua.
5) Stanza a Solaro, affittata.
Ambedue mostrano in pianta i fori per
attingere l’acqua. (F. 19)
L’interno della cisterna. Al di
sotto dei locali rilevati si trova un vano pressoché cubico di
circa cinque metri di lato, da essa si poteva attingere acqua dai
due locali contigui soprastanti.
Al centro del vano cisterna una colonna ne
sostiene la volta. Ovvio è l’impiego di materiale di riuso.
La colonna è il risultato della fusione, con
abile incastro, di due tronconi di colonne di materiale e stile
diverso. (F. 20)
Una fossa comune nell’area del Palazzo
Vescovile. Solo nel 1811 viene destinato a cimitero un’area
mezzo miglio fuori della città. L’editto napoleonico di
Saint-Cloud era stato esteso all’Italia il 5 sett. 1806, ma a
Terracina ebbe scarsi effetti, tanto che ancora nel 1816 il Papa era
costretto a dar facoltà al Vescovo, fatte le dovute eccezioni (!),
di vietare la sepoltura nelle chiese. Nel caso di Terracina “per
liberare la Cattedrale e l’Episcopio dalle pestifere esalazioni…”
Nel 1997 i lavori di ristrutturazione del
vescovado fornirono, in un certo senso, la conferma dello storico
problema.
Fu scoperto un “vano segreto”, adiacente
alle fondazioni del campanile nel lato sud, esso aveva ospitato una
vasta fossa comune.
Il locale aveva per base la stessa
pavimentazione del foro e si stimò che le ossa rimosse erano
appartenute a circa 2000 corpi! (F. 21)
Le gallerie sotto il foro Emiliano.
Foro Emiliano, Piazza Grande, Piazza San Cesareo, Piazza Duomo o
Piazza Municipio sono nomi usati in epoche diverse per indicare lo
stesso sito. A tutti è noto che per costruire la platea su terreno
in forte declivio i Romani edificarono una serie di gallerie di
sostegno via via più alte a misura che ci si allontanava dal
crinale.
-
Le tre sostruzioni più esterne sono le più note (si
intuisce anche il percorso non visibile da Piazza Santa Domitilla a
Via Posterla).
-
Altre se ne conoscono per tratti limitati magari perché
sono venute allo scoperto in circostanze fortuite.
-
L’intero reticolo , di fatto, è ignoto e le carte,
anche le più aggiornate, lo disegnano solo in parte. (F. 22)
Scoperte occasionali. E talvolta
accaduto negli anni che un crollo o il cedimento di un lastrone
della piazza ha indotto ad ispezionare un tratto delle gallerie di
sostegno.
Ci si è trovati allora di fronte ad una
situazione molto simile a quella mostrata nella foto: un riempimento
detritico ad altezza d’uomo che lasciava scoperta solo la parte
superiore della volta a botte. (F.
23)
Lo
svuotamento del corridoio ha reso di nuovo accessibile un breve
tratto delle gallerie. Solo un’opera di svuotamento completo
potrebbe portare a riscoprire il reticolo di cui se ne sospetta la
complessità, ma che resta ignoto nel suo complesso. Tutti gli
interventi di ispezione e di recupero sono stati fino ad oggi molto
parziali. (F. 24)
Parti sconosciute del reticolo
possono riservare delle sorprese. Ogni volta che si è tentato di
tracciare il percorso delle gallerie lo si è fatto usando riga e
squadra e si sono presi come punti di arrivo e partenza i tratti
periferici conosciuti. Il risultato non poteva essere che una serie
di linee ortogonali. Nella realtà, invece, si potrebbero trovare
non poche sorprese, come in questo tratto curvo sottostante, all’incirca,
il secondo gradino della scalinata della Cattedrale. (F. 25)
Riutilizzo come ossario. Almeno alcuni
dei corridoi in prossimità dell’ex Tempio Maggiore, oggi
Cattedrale, furono riutilizzati, a partire dal medioevo, come
ossari. La pretesa di voler essere sepolti in chiesa da parte dei
cittadini di Terracina contrastava, se non altro, con lo spazio
oggettivamente limitato. Per ottemperare alle richieste non c’era
altra via che “riciclare” gli spazi disponibili: le ossa più
“antiche” vennero “scaricate” nelle provvidenziali gallerie.
(F. 26)
Enormi cumuli d’ossa occupano
ancora lunghi tratti di cunicoli rendendoli pressoché
impercorribili. La “camera segreta” (cfr. foto 21) scoperta
fuori dai cunicoli dimostra due cose: primo, che gli spazi ipogei
erano pieni o, quanto meno impraticabili; secondo, che essi erano
stati murati e forse se n’era perduta la memoria. (F. 27)
Le
difficoltà di accesso. Le condizioni di questa sezione del
reticolo ipogeo non permettono di esplorare ulteriormente le
gallerie. Se poi si tiene presente che lavori successivi hanno
interessato questi spazi per il passaggio di fognature e condotte
idriche, si può ben immaginare quanto complessa si presenta una pur
auspicabile opera di bonifica e recupero di questo spazio storico.
Si tratta di mettere su un piatto della bilancia la legittima
curiosità (scientifica,speriamo!)
e sull’altro il rispetto per chi ci ha lasciati eredi di
questa città. (F. 28)
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